Pari passo
Villa Mansi
Segromigno in Monte, Lucca.
9 novembre 2014  / 15 Marzo 2015
Testo di Bettina Della Casa.



Daniela De Lorenzo, Pari passo

Conosco Daniela De Lorenzo da circa vent’anni e seguo con passione il suo lavoro. Oggi tuttavia vorrei avvalermi della celebre espressione di Vincenzo Agnetti e “Dimenticare a memoria” quanto so dell’opera di Daniela. “Dimenticare a memoria”, dicevo, ovvero trattenere su uno sfondo remoto ogni mia pregressa cognizione per concentrarmi sul presente, sugli esiti ultimi della sua ricerca, oggi in scena a Villa Mansi. Scegliere di rimanere nel momento presente equivale, spero, a restare in quel frammento di tempo che risiede tra il “non più e il non ancora”, tra passato e futuro, un intervallo in cui l’opera di Daniela trova la sua dimensione più congeniale, il suo naturale universo di riferimento.


Daniela De Lorenzo ha voluto intitolare questa mostra “Paripasso”, espressione che comunica un’equivalenza di ritmo, una sintonia tra due individui o entità, un’assenza di scarto temporale e spaziale. Ed è curioso che la traduzione inglese più comune della locuzione “pari passo” sia “hand in hand” (“mano nella mano”), un inaspettato scambio di “arto”… dal piede alla mano. Dunque l’artista pone in evidenza una condizione di parità, o meglio un medesimo ritmo di progressione visualizzati nel linguaggio corrente dall’immagine del piede o, in inglese, della mano. Ci piace allora ricordare che Annick de Souzenelle, studiosa francese di formazione junghiana scriveva nel suo saggio del 1991 “Simbolismo del corpo umano” che “il piede simbolicamente contiene la totalità dell’essere nel ‘non compiuto’, è il potenziale di energia, ha funzione di forza, robustezza e di equilibrio”, mentre “le mani sono simbolo di potenza, di conoscenza e d’amore”. In questa dimensione simbolica degli arti intesi come artefici di un ritmo armonico, evocatori di forza e potenza, equilibrio e conoscenza prende avvio, o potremmo dire “prende piede”, il nostro excursus tra le opere di Daniela De Lorenzo: una raccolta di sculture, bassorilievi, feltri, ricami e intarsi trovano dimora nei saloni di Villa Mansi disposti a terra, a parete o a mezza altezza. Ogni singola opera individua nel corpo umano il suo centro di indagine, dunque tra silenzio ed eloquio del corpo prende le mosse la nostra riflessione. Ci accompagna, in sottofondo, un proverbio che arriva da lontano, dalla Nuova Guinea: “Finché non è nella carne la conoscenza è solo rumore”.



                                  Pantomima, 2009



Carne, ovvero muscoli, nervi, ossa sono il soggetto della scultura in feltro rosso Pantomima, del 2009: il calco della spalla e del braccio dell’artista, in grandezza naturale, è disteso su un piano, anch’esso in feltro, appoggiato su di un tavolo (anatomico?). La scelta da parte dell’artista di usare il proprio corpo come modello non ha alcuna valenza autoreferenziale o narcisistica, si tratta piuttosto di prendere atto del corpo come l’unico sostrato di cui disporre, su cui “far conto” e a cui “pagare il conto” del proprio agire. Il corpo-modello è per Daniela De Lorenzo un habitus, nelle diverse accezioni di abito-involucro, abitudine, spazio da abitare. In un doppio movimento parallelo, dunque, la persona abita il proprio corpo consapevolmente e l’artista esplora dall’interno il medium della scultura per scardinarla e metterla radicalmente in questione. Supporto privilegiato dell’indagine plastica di Daniela De Lorenzo è il feltro, materiale antico – ottenuto tramite un procedimento a pressione e non per tessitura – e impiegato qui nel colore rosso scuro che appartiene al sangue, la carne, al fegato.



                                             Pantomima, 2009



Questa scultura dal titolo Pantomima – ovvero rappresentazione scenica muta in cui l’azione è affidata soltanto al gesto – trova nella piega del feltro il suo principio informatore: il calco della spalla, del braccio, del polso e della mano viene reso per paziente processo di piegatura. Assistiamo, in quest’opera, a una doppia “pantomima”: l’azione, infatti, è affidata due volte al gesto, inteso da una parte come processo creativo della piegatura e, dall’altra come soggetto stesso della rappresentazione: il gesto del braccio teso inerte su un tavolo. Nell’assumere il gesto della piega come tecnica espressiva Daniela De Lorenzo sceglie il tempo dell’istante, l’immagine si rapprende, si raggela, si contrae nell’attimo. L’artista orienta il nostro sguardo verso l’interno del corpo, siamo chiamati a guardare “dentro”, a entrare in relazione con la nostra struttura fisica più recondita. Non vi è ferita inflitta dal mondo esterno né malattia che prorompa dall’interno, semplicemente siamo davanti all’interno di noi stessi, così come siamo, nel momento. A partire dalla simulazione della ricostruzione anatomica offerta dall’opera si attiva, dunque, nell’osservatore una rinnovata percezione e consapevolezza di sé. Una sfida conturbante rivolta a tutti (tutti hanno un corpo), ma non coglibile da tutti (non tutti hanno una vera percezione del proprio corpo).



                         Escamotage, 2010



Il feltro, materiale che per sua natura attutisce i rumori, ben si attaglia all’eloquenza silenziosa del corpo messo in scena in Escamotage del 2010: un bassorilievo in feltro grigio di formato rettangolare che ritrae una figura maschile in scala naturale intenta ad eseguire un esercizio ginnico di particolare audacia. Nel linguaggio comune “escamotage” indica un espediente per sfuggire a qualcuno o sottrarsi a qualcosa. Ci piace allora ipotizzare che questo Escamotage operi in direzione di una messa in scacco del tempo. Il bassorilievo restituisce, scrive De Lorenzo, “l'immagine del contorsionista ripresa da una serie di scatti fotografici di Eadweard Muybridge che documenta tutta la sequenza fino alla sua massima tensione”. Allora l’estrazione e l’isolamento di un fotogramma dalla sequenza originale del noto pioniere della fotografia crea un processo di astrazione dallo spazio e dal tempo. Il corpo sospeso, teso allo stremo, si allontana dagli altri “se stesso”, addirittura si allontana da se stesso, sembra non possedere più realtà, così isolato in un singolo frammento. Il tempo viene parcellizzato in un feltro-corpo che sembra sparire nel momento stesso in cui appare. Corpo, pelle, impronta del corpo si incarnano e si risolvono nella sostanza del feltro che è sia struttura sia involucro, sia interno sia esterno, e alla fine – c’è sempre una fine del corpo – si coglie una forma disarmata, una spoglia.



                               Converso, 2011



Non sorprende che accanto al feltro, De Lorenzo scelga di utilizzare il ricamo, pratica egualmente antica che rimanda ad un intrecciare primigenio, all'origine del fare. Tecnica che appartiene a universi differenti, non ultimo quello della medicina. Non vi è in fondo tanta distanza tra un ricamo su tessuto e una sutura sulla pelle. Cucire, rammendare, ricamare, suturare sono gesti che appartengono alla stessa area, quella del “tenere insieme”: tra un ricamo in lino e una ferita alla gamba medicata da venti punti di sutura sussiste una certa affinità, sebbene si tratti di pratiche distinte da un diverso rapporto funzionalità / estetica.



  Vibrato, 2011



 



                            Scansione, 2012



Converso (2011), Vibrato (2011) e Scansione (2012), tre ricami su tela di medie dimensioni, descrivono analiticamente i vasi sanguigni di tre diverse parti del corpo (testa, avambraccio, addome), tre mappature distinte, tre diversi percorsi di vene principali, quelle deputate a riportare il sangue verso il cuore. Esercizi di “anatomia ricamata”, tentativi di guardare al proprio interno, far luce nel buio delle proprie vene per far luce sulla propria ombra. Ad un primo sguardo, questi ricami costituiscono una sequenza di tele chiare, discrete nella loro delicata eleganza, ma l’occhio attento non potrà non confrontarsi con una certa durata e difficoltà nell’atto di percezione delle immagini. Emerge un senso di straniamento determinato dalla messa in scena di un tabù, la raffinatezza dell’esecuzione non nasconde, infatti, il portato psicologico dell’immagine del sangue: leggera avversione o terrore irrazionale, il sangue, il fluire della vita stessa, è oggetto di varia paura tra gli esseri umani. Vedere questi recami è vedere molto più dei ricami in sé, è entrare in contatto con il turbamento provocato dal proprio stesso corpo.



                                 Indizi, 2014



L’opera a pavimento Indizi, del 2014, chiama in causa l’atto del vedere, l’oggetto di riflessione muove, dunque, dagli organi interni agli organi di senso, in una relazione che da interno-interno si trasforma in interno-esterno. Indizi pone un interrogativo: in cosa consiste l’atto del vedere? O meglio, come avviene il processo di acquisizione visiva dell’altro? 



                       Indizi, particolare



Daniela De Lorenzo adotta una sua personale variazione della tecnica dell’intarsio e traccia diverse “traiettorie invisibili” dello sguardo in filo bianco su supporto di MDF di formato rettangolare. Disegna il movimento oculare, l’esatto percorso dello sguardo di un soggetto rivolto verso un insieme di figure; ricerca gli indizi che conducono alla cattura di diverse silhouette. Quattro intarsi vengono disposti sulla stessa superficie, uno per “esercizio oculare”. Ogni “esercizio” consiste nel guardare per cinque secondi la stessa scena, ma le tracce non si sovrappongono e non corrispondono in alcun modo: lo stesso dato di realtà attiva modalità di percezione sempre diverse. Lo sguardo predilige alcuni tratti somatici del soggetto osservato (gli occhi, la bocca) su cui indugia e preferisce fissare l’attenzione dedicando un tempo e un movimento sempre diverso ad ogni singolo dettaglio. Nei diversi intarsi su MDF Daniela De Lorenzo isola artificialmente singole “scene” che, nella realtà percettiva sono tanto repentine e subitanee da contrarsi in un unico sguardo. Evidenzia il processo inconsapevole insito nel gesto consapevole per eccellenza: volgere lo sguardo all’altro. Mette in luce quanto sta per venire alla presenza: il farsi stesso dello sguardo. Una riduzione al dato fisiologico-meccanico che è messa in questione dello stesso soggetto che guarda, nonché delle condizioni volontarie e involontarie, consapevoli e inconsapevoli dell’atto di vedere.



             Contrattempi, 2014



Con la doppia, recentissima, scultura Contrattempi del 2014 passiamo dalla vertigine dello sguardo alla superficie del volto. Su di un grande tavolo in ferro di altezza superiore alla misura consueta poggiano due teste in grandezza al vero di colore neutro realizzate in cartone. Al primo sguardo si innesca un “contrattempo” visivo: qualcosa di imprevisto impedisce la normale percezione dei due oggetti. I due volti creano un effetto di ambiguità a cui stentiamo ad adeguarci: sebbene il nostro sguardo ci porti a “pre-vedere” dei visi a tuttotondo, un’osservazione più accurata rileva l’assenza dei dati somatici nel centro del volto. Questi volti-non volti scaturiscono da bassorilievi di profili uniti al centro e costruiti per successive stratificazioni. Si tratta di profili del viso dell’artista tratti da scatti fotografici dove il punto di vista celava i tratti somatici che identificano un individuo (occhi, naso, bocca). Questa obliterazione dei tratti salienti del viso produce un volto “mancante”, dove il centro, fisico e di senso, svanisce per lasciare spazio alle parti laterali e, tuttavia, la nostra istintiva propensione a “ri-conoscere” il noto ci porta a rintracciare illusoriamente i tratti somatici sottratti e dunque assenti.



Contrattempi, 2014



I due volti nascono da un doppio processo di decostruzione e ricostruzione, in un farsi manuale dell’opera che avanza “mano a mano”, strato per strato. Una lentezza intenzionale da parte dell’artefice dell’opera, un accurato lavorio in pieno contrasto con la cattura istantanea del soggetto operata dall’osservatore con il suo sguardo tanto rapido quanto erroneo. Siamo di fronte a una tensione costruttiva pronta a specchiarsi nel suo possibile mancare, nella sua stessa assenza. In una complessa messa in scena del suo doppio – declinato nel duplice bassorilievo e nelle due teste, l’artista preferisce dare volto alla visione piuttosto che mostrare un volto, il suo volto.

Attraverso l’indagine analitica e impietosa del corpo umano nella sua dimensione anatomica, l’artista manifesta il senso di ambiguità e di mistero che accompagna la percezione di sé e dell’altro. Daniela De Lorenzo senza esitazioni guarda attraverso il corpo perché… “Finché non è nella carne la conoscenza è solo rumore”.


Bettina Della Casa
Milano, 26 ottobre 2014


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/ Sergio Vitale : Bellezza Vaga