Stilla
Patrizia Pepe
Capalle - Firenze
01 / 07 - 12 / 9 2019
a cura di Rosanna Tempestini Frizzi



Stilla 2019, particolare dell'installazione


Daniela de Lorenzo – Stilla
Testo di Laura Vecere

Quel che viene portato all’attenzione nella mostra odierna possiede una tonalità specifica, singolare e imprevista rispetto alla vasta fenomenologia del lavoro artistico di Daniela De Lorenzo. Diremmo più intima. Il lavoro presente può essere definito un intervallo, un momento sospeso, uno spazio dedicato a un’osservazione poetica-teorica, una meditazione in cui si incrociano tempi e contro-tempi, forma e cancellazione della stessa. Un modo diverso, figurato, di formulare interrogativi sulla stabilità della materia e sulla sua organizzazione, come pure sul passaggio dall’uno al molteplice. L’opera presente nasce da un intervento tanto semplice all’apparenza quanto complesso nella sostanza; una intuizione: accostare e porre in risonanza due lembi staccati del propio lavoro per riformulare un nuovo contesto. L’uno riapre la memoria dell’altro e insieme costruiscono un imprevedibile orizzonte di senso, che compiendosi, non si chiude su sé stesso ma si apre a ulteriori ambiti da esplorare.



Secondo una lettura cronologica partiamo dall'osservazione del gruppo di sculture circolari color blu-scuro poggiate a terra e disposte a ventaglio come a designare una loro subalternità rispetto al gruppo principale composto da due grandi trottole realizzate in legno naturale chiaro.
Ogni pezzo dell’insieme scultoreo porta impresso nel proprio corpo una gamma di curve e controcurve, di modanature che di fatto sono registrazioni di vibrazioni di onde acquatiche colte nel loro acme di espansione. La fenomenologia delle sculture Senza Titolo (1990) deriva infatti dall’osservazione di ciò che avviene sulla superficie (i pezzi blu-scuro) oppure nello spessore ( i due vortici chiari del gruppo scultoreo principale) di un fluido allorquando questo è perturbato dalla caduta di un peso: ad esempio la stessa acqua in forma di pioggia che turba la superficie oppure un sasso gettato che modifica la struttura fluida in profondità. L’evento è stato osservato, registrato, congelato, oggettivato e reiterato più volte. Ne sono derivati altrettanti “prelievi solidi” “scavati” all’interno della materia fluida e sfuggente dell’acqua, quanti sono i vortici tridimensionali presenti. Una volta separati dal loro contesto di formazione originario e allontanati ulteriormente da quello in seguito alla successiva traduzione in legno tornito, i “prelievi” si sono manifestati finora attraverso la maschera estraniante di un object trouvé e, come quello, hanno ostentato reticenza a svelare la loro vera genesi. Ora l’insieme delle differenti ondulazioni vibratorie che caratterizzano ciascun pezzo e la loro reciproca disposizione pavimentale li rendono più simili a un’immagine fluida fino a evocare l’idea di una fontana fatta di giochi d’acqua “rappresi” intorno ad un getto principale più grande, anch’esso forma scultorea bloccata nell’acqua.

Stilla 2019, particolare dell'installazione


A questo primo nucleo di lavori Daniela De Lorenzo associa un altro “differente”: cinque gigantografie stampate su tela che mostrano immagini di un corpo femminile ( quello dell’artista da cui sono esclusi testa e piedi a focalizzare la parte dell’essere umano dove l’intelletto ha meno giurisdizione, e dunque la più vicina ai processi naturali indipendenti dalla volontà soggettiva), vestito con un abito realizzato in feltro bianco, mentre compie evoluzioni e oscillazioni intorno al proprio asse: Lei (2002/2019).
Laddove i “vortici”/Senza Titolo tridimensionali costituiscono il prodotto solidificato di una tipologia fenomenica altrimenti sfuggente e ineffabile, le gigantografie su tela agiscono nella direzione opposta: rendono fluidi i contorni solidi del soggetto osservato. Nel primo caso l’occhio, magnificato dalla potenza del medium ottico-fotografico, è in grado di penetrare nella profondità della materia liquida e osservare il fenomeno nel suo prodursi. Nel secondo caso, invece, il medium fotografico è im-piegato a produrre il fenomeno. Lo scatto fotografico in questo caso è stato predisposto al fine di rendere labili i contorni che racchiudono l’immagine per favorire così l’effetto di dematerializzazione della materia fisica. Il peso specifico del corpo insieme al peso specifico del vestito di feltro perdono il loro carico ponderale e l’immagine finale, filtrata dai molteplici passaggi successivi non è più la stessa. L’alleggerimento è ulteriormente incrementato dalla scelta del formato di stampa che, oltre a conferire monumentalità alle figure, rende presente una latente componente cerulea (derivata dai due bianchi, quello dell’abito e quello del muro di fondo) che le pervade tutte caratterizzandole. L’aspetto lattiginoso-azzurrino delle stampe suggerisce l’effetto che le figure siano ora guardate attraverso un velo: una vaga presenza d’acqua poco profonda risalita dagli interstizi della materia sottostante che giunta alla superficie aleggia sopra di essa simile ad uno schermo ideale sotto cui fluttuano i contorni di nuove identità femminili.
In entrambi i casi non è la cattura di un evento fenomenico l’obiettivo finale del lavoro né la biforcazione formale in tridimensionale e bidimensionale ma un fenomeno terzo che li trascende entrambi.
Riassumendo: da un lato c’é la forma concentrica dell’acqua colta nella sua fenomenica dilatazione e solidificazione, dall’altra c’è una figurazione femminile intravista nella dissolvenza rotante di una nebulosa di aria e di acqua. Entrambi i lavori, privati delle connotazioni più identitarie, assumono quelle qualità impersonali necessarie alla produzione di una nuova opera.

Stilla 2019, particolare dell'installazione


A questo punto le due famiglie di lavori appaiono collegate da un chiasmo per cui ciò che è liquido dipende dal solido e ciò che è solido dipende dal liquido. Tramite esso emerge lo stretto vincolo di parentela che li unifica al livello di un patrimonio genetico fluido condiviso, mentre dal punto di vista operativo giungono a formalizzazioni differenti. Grazie ad esso avvengono scambi e permutazioni tra i piani tattile e ottico superiori e quelli solido e liquido sottostanti che, in tal modo, stabilizzano un comune piano intermedio tattile-ottico, solido-liquido “in cui ad esprimersi non è più l’essenza, bensì la connessione, l’organizzazione” (1).Ciò avviene in virtù della determinante entrata in campo della figura umana che imprime la propria impronta organizzativa all’intero contesto. In quanto corpo vivente in movimento la figura umana ha caricato di tonalità organico-affettive l’immagine e proprio questa carica è destinata a permanere quando il processo di dissolvenza dei contorni ha eliminato ogni somiglianza. Essa permane nella sua qualità di vibrazione specifica capace di attivare le frequenze inscritte negli altri elementi provocandone l’accensione corale. Insieme creano un unico, ma non univoco, ambito di senso. Possiamo ora dire che “giochi d’acqua”/Senza Titolo trovano il loro habitat, il loro compimento naturale, proprio nell’incontro con il loro reciproco speculare-divergente: le figure femminili fluttuanti di Lei. E viceversa.
Dalla solidità della forma scultorea siamo giunti a considerazioni liquide senza abiurare alla solidità di partenza. La vena liquida, intercettata da Daniela De Lorenzo fin dagli inizi del percorso artistico, si è mantenuta allo stato carsico agendo più come una sotto-traccia o un sotto-testo rispetto agli altri temi, più urgenti, da sviluppare. Comunque le forme solide dei “vortici”/Senza Titolo dell’inizio costituivano già un avvertimento: si è in presenza di un terreno sfuggente. Adesso, nel loro accostamento, le due parti mostrano l’orizzonte che le accomuna e che potremmo definire Ninfeo solo a patto, però, di designare con questo nome un luogo a-specifico in senso topico e assumerne invece tutta l’apertura metaforica di cui il termine è impregnato. Il dato visibile si apre alla visione e questa, a sua volta, si apre alla sfera del mito in cui “l’Immagine” ha avuto origine, ovvero a una Atopia.

Stilla 2019, particolare dell'installazione


L’acqua, giunta con la massima discrezione in primo piano, determina un nuovo ambito interpretativo e implica considerazioni più ampie rispetto a questo scritto. Ci limitiamo a rilevare, pertanto, che l’acqua è l’elemento per eccellenza della mutazione, del femminile, della nutrizione, della creazione, della memoria profonda e, in quanto sostanzialmente cangiante, evaporante e aerea, è interpretabile come la dichiarazione inequivocabile di risoluzione del vincolo che lega per statuto la Forma al principio di Immutabilità per aprirla al movimento e alla mutazione. Come a dire: la Forma è una condizione transitoria di organizzazione tra due caos. Ecco perché la nascita della nuova immagine procede dalla “quasi cancellazione” dell’immagine di partenza. Essa cede il passo in quanto immagine convenzionale e il cliché della visione prospettica e nitida del medium fotografico deve adattare i suoi standard visivi alle necessità espansive della sfera della materia viva e primordiale fisico-psichica e ideale-concettuale, indotta dall’acqua. La dissolvenza della figura di partenza porta ora in evidenza quella sottesa e multipla di Lei.



Se dovessimo dare un nome che maggiormente si avvicina a definire il ruolo che le figure femminili rivestono, dovremmo usare quello di Ninfa. Nome tanto evocativo quanto generico. Ninfa è un nome che implica una “fantastica nebulosa” intessuta di genealogie incrociate che “si interrompono e riappaiono quanto meno te l’aspetti", carsiche, appunto, come nel caso dei “vortici”/Senza Titolo e le molteplici Lei/Ninfa convenuti insieme in questa mostra. Ninfa è di per sé un nome singolare con valore plurale. Pur se appartenente alle divinità olimpiche Ninfa è concepita senza una identità fissa, non riveste un ruolo specifico. È priva di potere “istituzionale”(2) Proprio per questo è la figura dell’antichità più adatta ad attraversare lo spazio-tempo con passo veloce e immagine fluttuante e continuare ancora a manifestarsi. “Organismo enigmatico o Eroina impersonale”, Ninfa possiede “il dono delle somiglianze nascoste” e questa qualità contribuisce a che il suo transito trovi spiragli e ramificazioni per riemergere dove è più opportuno e alimentare la vita tramite la memoria. Ninfa, divenuta ad opera di Warburg il simbolo per eccellenza della memoria e della sua continuità, si rivela tramite l’immagine, un’immagine però senza più modello e dunque senza copia o mimesis. “Ninfa è un indiscernibile di originarietà e ripetizione, di forma e materia”.(3) A differenzia di Ninfa moderna, e al suo panneggio caduto, che nel saggio di Georges Didi-Huberman è scivolato nel rigagnolo fognario parigino nella sua corsa inarrestabile verso l’informe, Lei (2002/ 20019) tiene ben saldo e attaccato al corpo il proprio vestito non certo per pruderie ma per motivi funzionali al compito di apparire/dissolversi quando è il suo momento di entrare o uscire di scena. La vera novità è che Ninfa/Lei vestita degli abiti di materia fluttuante, “parla” in prima persona, si racconta senza l’aiuto di un portavoce. Per farlo se mai si sdoppia in dialogo nel dittico Lei (2002), ne discute insieme alla piccola folla di alter-ego di Lei (2002/2019).

Laura Vecere giovedì 2 maggio 2019


1 - G. Deleuze, Francis Bacon, Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata, 2° ed, 2008, p.193.
2 - G. Didi-Huberman, Ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto, Il Saggiatore, Milano 2004, p.11.
3 - G. Agamben, Ninfe, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p.18