INFELTRIRE IL TEMPO
2008
Saretto Cincinelli
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Tutto inizia ancor prima di cominciare
Jacques Derrida


Mantenersi rigorosamente ai margini della scultura, abitare strategicamente un’eredità per dis-orientarla dall’interno: è questa la prospettiva in cui si collocano, fin dagli esordi le opere di Daniela De Lorenzo che si confermano tra le più significative elaborate dall’arte italiana maturata durante gli anni ’90. A distanza di tempo possiamo ormai individuare nella ricerca dell’artista due periodi: il primo maggiormente ancorato a una dimensione scultorea e spaziale che va grosso modo dal 1985 al 1993 e il secondo, decisamente più libero e suscettibile di ulteriori e più sofisticate articolazioni che, a partire dal 1993, appare esplicitamente segnato da una prospettiva temporale. La schematica suddivisione proposta non pretende di sancire una brusca rottura ma semplicemente registrare il risultato di una serie di coerenti e progressivi slittamenti tesi a sostituire, quasi senza soluzione di continuità, l’impianto spaziale responsabile della struttura plurale ma atomistica delle prime opere con uno temporale maggiormente capace di accogliere al proprio interno l’ipotesi della metamorfosi: in nessun caso, infatti, un attento sguardo retrospettivo, permetterebbe di rubricare il macroscopico alleggerimento dei materiali scultorei di partenza, l’adozione della piega, e le innegabili modifiche introdotte dall’apertura alla fotografia e al video - riconducibili all’esigenza di misurarsi con forme sempre meno perentorie e definitive- come eventi traumatici.
Concettualmente implicita nella ricerca dell’artista la piega (con i suoi inviluppi) acquisterà progressivamente il ruolo di un principio informatore: all’altezza di Biffures, 1993, ciò che nelle sculture di De Lorenzo, unisce un elemento all’altro è ormai più importante dello spazio che li separa e, molteplice, non è più sinonimo di ciò che è composto da molte parti ma di ciò che è piegato in molti modi. Il desiderio di “creare una cosa che sia contemporaneamente due cose” (De Lorenzo) sarà infatti all’origine di opere come “eco” ed “Exterraefactus” (1) che, pur rifuggendo ogni idea d’astrazione, si presentano come una sorta di controfigure che eludono ogni univoco tentativo d’identificazione. A metà strada tra una tavola in attesa d’essere apparecchiata ed una lettiga frettolosamente ricoperta per accogliere un corpo ferito, “eco” sta abbandonata in un angolo, sorretta da gambe troppo esili, come una domanda silenziosa; oggetto senza passato e dal futuro incerto, la cui verità sembra risiedere unicamente nella consistenza, essa reclama, per il solo fatto d’esistere, una trasformazione del nostro concetto di reale. L’instabilità semantica e strutturale a cui l’opera pare vocata, deriva, infatti, non da un adeguamento precario al preesistente ma da una sua originaria messa in questione: come l’eco del titolo, l’opera ripete instancabilmente se stessa, trasformando l’identità in un principio di dis-identificazione. Qualcosa di simile avviene anche per “Exterraefactus” in cui la forma di un rinoceronte si offre allo sguardo non come quella armatura perfetta, a cui ci ha abituati la storia dell’arte (da Dürer a Pascali) ma come un involucro, una spoglia, una forma disarmata: la materializzazione di una sorta di ossimoro che unisce, con la libertà di un artificio linguistico, due termini che si elidono a vicenda… una paradossale e derisoria armatura di feltro che, smarrendosi nel fluire delle sue innumerevoli pieghe, si affloscia come un vestito vuoto.

Configurandosi come una mirabile operazione di indebolimento dei confini di differenti discipline, anche l’apparente singolarità dell’opzione verso la fotografia si ridimensiona quando appare chiaro che l’atto del fotografare non si caratterizza come risultato e che l’operazione dell’artista, almeno agli inizi, trova il proprio centro quando quella di un fotografo, tradizionalmente inteso, è pressoché conclusa. Il fatto è che per De Lorenzo l’origine di un’immagine non è mai semplice, diretta (in principio non c’è l’uno ma la diade): lo scatto, il negativo sono, estremizzando, paragonabili a semplici materiali e la pratica fotografica tende, dunque, a configurarsi come prodotto di un lavoro più che di uno sguardo; lavoro di raddoppiamento, spaziatura e metamorfosi dell’origine che contraddice o perlomeno complica ogni idea modernista di “specifico”. Indipendentemente dal medium utilizzato l’artista pensa, infatti, la forma e la presenza dell’opera nella sua dimensione verbale più che in quella sostantivale, dunque, in termini di potenzialità piuttosto che di assolutezza.
Costruzione di un’immagine più che sua semplice cattura, la pratica fotografica di De Lorenzo pone, coerentemente, a propria origine la piega: le prime foto, risultato di una sovrapposizione di negativi tratti dalle sue coeve sculture in feltro, scaturiscono da una duplicazione interna all’immagine, che non restituisce il soggetto ma lo complica, decostruendolo.(2) Prodotte da una spaziatura originaria, prive di un’unica matrice, le stampe dell’artista non si offrono come semplici ritratti di una scultura ma, potremmo dire, del suo ri-trarsi: attraverso una simmetrica ed enigmatica moltiplicazione delle pieghe costitutive del loro soggetto, infatti, non rappresentano ma rendono presente il rivolgersi della scultura verso il suo non-ancora. Nei successivi autoritratti, (3) invece, il lavoro che dà luogo all’immagine, incorporato, nella stessa fase di ripresa, rende, superflua ogni duplicazione, o inversione dell’immagine di partenza. Il tentativo messo qui in atto: dilatare l’istantanea fino a un punto di non-ritorno, è quello di dare consistenza al frattempo, all’invisibile del fra, ad un divenire che non diviene che, non cessando di finire e non finendo di iniziare, sembra modulare incessantemente l’immagine più che modellarla.
Ritratti in un certo senso mancati, anticipati o ritardati, gli autoritratti di De Lorenzo, fotografano non ciò che è (stato) (4) ma, paradossalmente, ciò che sta per venire alla presenza. Assecondando il movimento del tempo nel suo fluire, l’artista involta, i connotati del proprio volto che, ruotando in se stesso, diviene una sorta di testa fantasma che fa evaporare l’icona, ri-velando una faccia nel suo dis-facimento. Centrale appare qui la registrazione della temporalità dell’azione: la performance dell’autoritratto tende così a fondersi nell’autoritratto come performance. Affermando la loro paradossale specificità attraverso il rovesciamento della messa a fuoco queste opere fotografano una latenza; portando in primo piano la grana dell’immagine, conservano la traccia ‘vibratoria’ del loro atto di nascita all’interno dello stesso risultato, retrocedendo in se stesse per testimoniare il proprio accadere, ridanno un volto alla visione più che mostrare volti.

Il fecondo rapporto instauratosi, a partire dal 1995, tra fotografia e scultura, finisce per configurarsi come una costante, al punto che i due poli vivono ormai di un continuo gioco di rimandi e corrispondenze segrete (5) : se il primo lavoro fotografico, incentrato sulla costruzione dell’immagine, vanificando ogni differenza tra fare e prendere, (6) avvicinava la foto alla scultura, il successivo, incentrato sulla dilatazione dell’istantanea, riconducendo la genesi dell’immagine all’interno di un singolo scatto (e di un unico negativo), la riporta ad una più consona pratica di cattura di aspetti “invisibili” del reale: prospettive diverse ma solo in apparenza contraddittorie. Analogamente alle prime stampe fotografiche che, riconducevano il già-stato della scultura verso il suo non-ancora, i successivi tentativi dell’artista di introdurre la durata nell’istantanea, trasformano la foto in una paradossale impronta del possibile che controeffettua, après coup, la stabilità stessa del visibile.
All’interno della fitta trama di rimandi intessuta da De Lorenzo, la variazione di un punto di vista finisce, come indica esemplarmente la mostra Harmonica (2002), per consolidare il complesso rapporto che lega a doppio filo i due poli della sua ricerca: qui, infatti il movimento della grande opera in feltro che gira lentamente sul suo asse, più che contraddire quello immobile o virtuale della fotografia, sembra dargli il cambio. In questa mostra il regime di sguardi, precedentemente, a senso unico, che governava i rapporti scultura-fotografia appare ribaltato: se prima, come abbiamo visto, era infatti la foto a guardare la scultura, qui, sembra essere quest’ultima a ri-guardare la foto, per concedergli un’ulteriore chance d’esistenza. Nel lavoro di Daniela De Lorenzo tutto tende a duplicarsi ed a complicarsi per tornare a vivere almeno due volte.(7)

Esemplare a questo riguardo la video-installazione a più canali Dammi il tempo!, variazione infinita sull’identico tema di una performer (Ramona Caia) (8) che cerca di reiterare sue precedenti posture, immortalate fotograficamente e proiettate a grandezza naturale tramite diapositiva. Video-installazione in cui più che la riuscita della performance, conta, il suo necessario mancare il bersaglio: la messa in scena di un quasi capace di testimoniare l’ineludibile differenza che separa la medusazione della foto dal permutare dell’immagine video, l’(im)possibilità di sanare un anacronismo, il paradossale tentativo di annullare il ritardo originario fra la posa e il suo ri-facimento, quello scarto differenziale che, separando movimento e immobilità, rimanda ad infinitum l’epifania di una coincidenza.
Paragonato alla foto, sguardo di Medusa che cattura ogni presenza trasformandola immediatamente in icona, il video appare una sorta di antidoto, capace di resuscitare quest’ultima al suo dinamismo (9) : è sovrapponendo queste divergenti peculiarità all’interno del corpo unico di un’immagine plurale che l’artista crea quel cortocircuito tra movimento e immobilità, quella compresenza simultanea di non ora e adesso che costituisce il nucleo dell’opera.
Lo spettatore assiste, così, ripetutamente, al fondersi senza confondersi di due immagini incompossibili che producono l’inedita sensazione di una coesistenza di reale e virtuale a proposito del medesimo evento: mentre il dinamismo dell’immagine video reclama, infatti, un ancoraggio al presente, l’immobilità dell’immagine fotografica sembra chiamarsene fuori, abitare una lacuna temporale, una precedenza a-cronologica che risuona ambiguamente sia come eco che come matrice dell’immagine in movimento. Un supplemento d’attenzione alla genesi dell’opera ci rivela -come indica l’ombra portata della performer- che la ripresa video, priva di una luminosità propria, vive, unicamente, grazie alla luce veicolata dalla diapositiva. La luminosità dell’è-stato fotografico giunge così a illuminare il presunto sempre-ora dell’immagine movimento “come il raggio differito di una stella” (Barthes) (10) e il “passato”, che (a causa della sua antecedenza) dovrebbe star sotto, tende a sovrapporsi après coup al “presente”, provocando un effetto quasi ipnotico che perturba l’immediato hic et nunc della percezione.
Coesistendo con l’incedere del video, l’immutabile persistere della diapositiva acquista il rilievo di un “doppio” spettrale che, percepito nella sua attualità e, insieme, nella sua virtualità, pare ricondurre ostinatamente il movimento in atto della performer al suo prima, in seno alla dynamis correlativa che lo ha reso possibile. “Man mano che la realtà si crea -scrive Bergson (11) - la sua immagine si riflette all’indietro in un passato indefinito; si trova così a essere stata, da sempre, possibile; ma è solo in questo preciso istante che comincia a esserlo…”. Duplicando il reale, il possibile si insedia dunque nel passato, con un movimento retroattivo, dandosi a vedere come essere-stato-possibile: mediante un sistematico anacronismo. Come la luce impalpabile delle diapositive di De Lorenzo che accompagnano l’azione della performer, il possibile di Bergson accompagna di un alone ogni attualità, traducendosi in un “prima” che non si lascia circoscrivere all’interno della successione cronologica ma esiste al modo di un’inesauribile virtualità, mai attenuata dall’insieme delle sue realizzazioni.
Come in una deleuziana immagine-cristallo, l’anacronismo che struttura Dammi il tempo! risulta ancor più evidente nell’articolazione “minima” di una videoinstallazione che, rifuggendo qualsiasi tentazione narrativa, si offre come variazione infinita, inestricabile intreccio di differenza e ripetizione (12) : nel passaggio da uno schermo all’altro, non assistiamo, infatti, ad alcuna progressione ma, solo, al reiterarsi di movimenti diversi colti nel loro farsi; non vediamo mai qualcosa che possa configurarsi come un inizio o una conclusione: il tentativo della performer di replicare la posa fotografica è colto unicamente come un movimento in surplace, un’oscillazione permanente attorno ad una figura a grandezza naturale, immutabilmente statica, quell’immagine-modello cui la performer dovrebbe commisurarsi ma che, in realtà, finisce per risultare tale solo per lo spettatore. L’assoluta intraducibilità in figura della luce della diapositiva che investe la protagonista e va a stamparsi sulla parete di fondo, come una sorta di scenografia, risulta infatti decisamente inadeguata a orientare il suo movimento. Il continuo oscillare della performer diviene, specchio della sua assoluta mancanza di controllo visivo sul modello e della sua decisione di affidare alla memoria, all’alea o ad indicazioni esterne, il raggiungimento di una ipotetica coincidenza, verificabile, del resto, solo a posteriori. Nonostante le apparenze la sovrapposizione spaziale e temporale che sostiene Dammi il tempo! non si configura come una ‘classica’ sovrimpressione, qui, non si tratta, infatti, di sovrapporre, come nelle prime prove fotografiche dell’artista, due immagini autosufficienti ma due immagini, asimmetriche e per così dire, affette da un eccesso e un difetto originari, che vivono unicamente del loro reciproco e parassitario sovrapporsi. Se si trattasse di una sovrimpressione la coincidenza fra la posa e la sua replica, tra il movimento e l’immobilità, sognata dalla performer, potrebbe essere raggiunta, tramite l’escamotage di un fermo-immagine, qui, invece, la contaminazione originaria delle due componenti dell’immagine impedisce ogni loro separazione. Pur assorbito nella medesima ripresa del punto di vista fotografico, il remake del gesto-postura agito dalla performer finisce per risuonare inevitabilmente come un impossibile riaggiustamento postumo della posa, una sorta di dejà vu che non mostra altro che la propria irriducibile dis-locazione, un contrattempo, che risuona nell’immagine come l’eco sempre differita di una ‘presenza altrove’.
Tramite la simultaneità di reale e potenziale, magistralmente adombrata in Dammi il tempo! De Lorenzo destabilizza, sino a renderla indecidibile, la gerarchia che vuole l’immagine in movimento ancorata al presente e quella statica relegata al passato, permettendo così allo spettatore di esperire l’attualità del “presente” sotto l’angolo prospettico della sua potenzialità, quella potenzialità che intersecando in ogni punto la lineare successione cronologica mostra sia l’inestricabile coappartenenza di facoltà ed esecuzione sia la “differenza di natura” che impedisce di ridurre l’una all’altra.


Saretto Cincinelli
Testo dal catalogo Encara de Nou 2008, La Gallera, Valencia.
a cura di Alba Braza.

 

 

note

1  Presentate rispettivamente a: “Biffures: De Lorenzo-Valldosera”, Bagnai, Siena, 1993 e “Catelani-De Lorenzo”, La Nuova Pesa, Roma 1996;
2   Complicare, duplicare indicano qui ciò che è piegato due volte, ciò che, lo vedremo più avanti, vive almeno due vite;
3  Pensiamo alla serie “Distrazione” 2000-2001 proposta alla mostra “Primo Piano. Su la testa” al Centro d’arte contemporanea Palazzo delle Papesse, Siena, 2001 ed a “Vis à vis” al Man di Nuoro, 2002 ma un analogo discorso vale anche per “Controcanto”, 2004 o per la serie “Ritrarsi”, 2003;
4   Pare superfluo ricordare che l’è stato costituisce secondo Roland Barthes il noema stesso della fotografia, cfr La camera chiara, Torino Einaudi, 1980;
5   Pensiamo, in particolare, per limitarci alle personali,“Viceversa”, Siena, 1998, Giocoforza, Roma , 2002, Harmonica, Torino, 2002, “Mormorio”, Bludenz, 2002 , “L’identico e il differente”, Como, 2003, “L’un l’altro”, Firenze, 2004; 6   Secondo Szarkowski, la differenza tra foto ed altri medium passa attraverso la distinzione tra fare e prendere (si fa un quadro ma si prende una foto), fare implica sintesi, prendere implica selezione;
7   Due vite hanno sicuramente vissuto le opere in feltro oggetto dei primi scatti dell’artista; due vite contemporanee e indipendenti, nei casi in cui l’opera plastica sia sopravvissuta al suo “doppio” fotografico, due vite successive in quelli, non infrequenti, in cui quest’ultimo abbia completamente sostituito la scultura originaria;
8   Oltre che per “Dammi il Tempo!” Ramona Caia ha collaborato con De Lorenzo in diverse altre occasioni, ricordiamo il video monocanale “Agile”, 2005 e “Animazione”, 2007
9   Anche se a un altro livello bisognerebbe riconoscere che se la foto eternizza l’immagine, il video imbalsama il movimento.
10   Cfr. Roland Barthes, La camera chiara, Torino Einaudi, 1980, p.82.
11   In H.Bergson, Il ricordo del presente e il falso riconoscimento in: Il cervello e il pensiero, a cura di M. Acerra, Roma, Editori Riuniti, 1990, p.107
12   Solo il corpo della protagonista resta ogni volta lo stesso, i suoi abiti, le sue posture e persino le dimensioni delle immagini, ritagliate tramite mascherini, in fase di ripresa, appaiono soggette a mutazione, così come il sonoro che, misteriosamente, accompagna o non accompagna alcune riprese.